Regge l’impianto accusatorio dell’inchiesta Mala sanitas. Nove le persone condannate dal Tribunale di Reggio Calabria che ha inflitto oltre trentasei anni di carcere ai medici degli ospedali Riuniti per quello che è stato definito il reparto degli orrori. Non regge, però l’accusa di associazione per delinquere contestata ad alcuni imputati. Nello specifico, la pena più pesante è stata inflitta a Daniela Manuzio, con 6 anni e 2 mesi di reclusione. Poi le condanne a 4 anni e 9 mesi per Pasquale Vadalà, a 4 anni e 8 mesi per Alessandro Tripodi, 4 anni e 6 mesi Filippo Luigi Saccà. 4 anni di reclusione, invece, per Antonella Musella e Maria Concetta Maio. Tre anni per Giuseppina Strati, 2 anni e 3 mesi per Luigi Grasso. Assolti Annibale Maria Musitano e Mariangela Tomo.

Il reparto degli orrori
Secondo l’accusa vi sarebbe stato un vero e proprio “sistema” di copertura degli errori medici consumatisi nei reparti dell’ospedale reggino, attraverso la falsificazione delle cartelle cliniche dei pazienti. Gli imputati devono rispondere, a vario titolo, di falso ideologico e materiale, soppressione e occultamento di atti e di interruzione di gravidanza senza il consenso di una donna. Nel corso dell’operazione, eseguita nel 2016, diversi medici furono anche arrestati e posti ai domiciliari, mentre per altri, fra cui un’ostetrica, scattò la sospensione dalla professione medica. I pubblici ministeri, sin dalla scorsa udienza, aveva ripercorso tutte le tappe dell’inchiesta che aveva svelato quello che, per la stampa, fu il cosiddetto “reparto degli orrori”. Particolarmente dure furono alcune intercettazioni raccolte dagli inquirenti che contestarono ad alcuni imputati anche il reato di associazione per delinquere.

La falsificazione delle cartelle cliniche
La pubblica accusa ha ricostruito minuziosamente tutti i singoli capi d’imputazione, con annotazioni tecniche molto dettagliate relative alle perizie effettuate nel corso delle indagini e sviluppate nella lunga istruttoria dibattimentale. Anche per il reato associativo è stata ricostruita l’intera struttura e successivamente formulate le richieste di condanna. «Il meccanismo esiste – ha ribadito in aula il procuratore Di Palma – c’è una colleganza mal concepita che sfocia spesso in reato». Il pubblico ministero ha parlato di rapporto teleologico fra errore e falsificazione. Per la pubblica accusa «appena scatta l’errore, tutti i componenti dell’associazione sanno cosa devono fare per mettere in sicurezza il reparto. E l’artefazione è stata concepita così bene che i consulenti tecnici non l’hanno riscontrata, perché le carte erano false. Ecco a cosa serviva mettere le cartelle nel cassetto e sbianchettare il nome». Per il procuratore, «i vari soggetti interessati sono legati non solo da rapporti professionali ma anche personali e non c’è dubbio che gli imputati del reato associativo rispondano del reato di essere associati fra loro al fine di coprirsi le spalle, falsificando le cartelle cliniche». Secondo Di Palma, Vadalà ha una doppia responsabilità: come redattore di cartelle cliniche e come responsabile delle cartelle cliniche di tutto il reparto in quanto primario. Dell’associazione rispondevano Pasquale Vadalà, Alessandro Tripodi e Daniela Manuzio.

Con la sentenza è stata poi accertata la falsità di alcune cartelle cliniche ed è stata disposta una provvisionale di 30mila euro per le parti civili.

La sentenza
Luigi Grasso: 2 anni e 3 mesi di reclusione

Maria Concetta Maio: 4 anni di reclusione
Daniela Manuzio: 6 anni e 2 mesi di reclusione
Antonella Musella: 4 anni di reclusione
Annibale Maria Musitano: assolto
Roberto Rosario Pennisi: prescrizione
Filippo Luigi Saccà: 4 anni e 6 mesi di reclusione
Massimo Sorace: 4 anni di reclusione
Giuseppina Strati: 3 anni di reclusione
Alessandro Tripodi: 4 anni e 8 mesi di reclusione
Pasquale Vadalà: 4 anni e 9 mesi di reclusione
Antonia Stilo: assolta
Marcello Tripodi: prescrizione
Mariangela Tomo: assolta

(LaCnews24)