UNA STORIA

Ogni tanto le cose bisogna vederle, per sentirle vere. Bisogna vedere quei lividi non per sentirsi sconfitte/i, ma per pensare “potrebbe capitare anche a me”, oppure “avrebbe potuto essere mia sorella, mia figlia, ecc.”. E fermiamoci qui, perché poi si rischia di entrare nel populismo de “io l’avrei ammazzato”, “io avrei fatto X” e “io avrei detto Y”. Fermiamoci a questa istantanea. E a questa storia.

E’ un occhio femminile, l’occhio di una ragazza che si era rifiutata di mostrare la sua chat Whatsapp all’allora compagno (e mi scuso con i latinisti per l’uso di questo termine dall’etimologia così profonda). Per questo rifiuto, questa ragazza ha ricevuto in risposta un pugno, non con la mano del delinquente in questione, ma col cellulare stesso, nelle mano del delinquente. Quella ragazza narra di essere caduta a terra in preda a un dolore lancinante, nel corridoio di casa, di aver persino chiesto aiuto urlando al suo aggressore che, per tutta risposta, le ha urlato “E alzati, che non ti ho fatto niente, non hai nessun livido!”.

Per il solido, maledetto timore reverenziale di non “creare casini” e di non “ingigantire le cose”, la ragazza non è andata in Pronto soccorso, si è limitata a scrivere un Whatsapp a sua madre: “ho un occhio nero. Non giudicarmi”. Il livido le ha invaso l’occhio quella sera e per tutta la notte successiva, tanto che alla fine la ragazza non ha potuto fare a meno, il giorno dopo, di recarsi dall’oculista che le ha detto “sei stata fortunata, ha soltanto sfiorato la retina. Ora però dobbiamo fare in modo che non continui a penetrare”. Seguendo le cure, la ragazza ha vissuto per cinque lunghissimi giorni estivi con una benda antibiotica che lasciava libere le ciglia e che andava seccandosi man mano che rilasciava il medicinale, tirando impietosamente la pelle. Una per tutto il giorno, una per tutta la notte. Tra un cambio e l’altro, due collirii. Cinque giorni nel pensiero di essere sbagliata, di essersela cercata, perché forse lo aveva istigato, perché forse era nervoso, perché forse lo stava trattando troppo male. Da parte del delinquente, nemmeno uno “scusa” ma soltanto ciò che noi chiamiamo gaslighting: “sei pazza”, “io non ho fatto niente”, “ricordi male”, “te lo sei fatto sola”. Così come tutte quelle che lo avevano già denunciato, nel corso del tempo. Tutte pazze. Null’altro, impegnato nella ricerca dell’ennesima amante, dell’ennesima vittima.

Ad oggi, la ragazza ha denunciato. E’ stata proprio l’ennesima amante, l’ennesima donna incappata nelle grinfie di questo individuo a convincerla laddove, in una appassionata arringa del suo bad boy, dopo averla accusata di essere pazza, una pessima donna, le scrive: “potrei mettere la mano sul fuoco che lui non farebbe mai del male a una mosca”. Lì, con quella frase, la ragazza finalmente si è svegliata.

La ragazza ha ricordato i primi tempi, quando anche a lei si era presentato come un povero agnello sacrificale, vittima di un complotto della società, vittima di donne malvage e vendicative. Si è rivista in questa difesa maldestra, quasi comica, ma convinta. Ha sentito il peso della ciclicità del comportamento di lui, che (pur avendo tre neuroni in testa e non essendo neppure esattamente un Adone) ha l’abilità di manipolare il cervello delle donne, e da anni saltava di donna in donna ripetendo lo stesso, identico schema.

La ragazza allora ha denunciato, e ha denunciato tutti gli episodi in cui – in preda ad alcol e sostanze – lo ha visto intemperante e violento. Ha raccolto tutto il suo coraggio nelle mani e si è recata dalle Forze dell’Ordine, ove ha trovato comprensione, delicatezza, sostegno. Si è anche presa la briga di contattare quante, prima di lei, ne avevano denunciato i comportamenti, per creare una rete di sostegno e aiuto reciproco.

Dopo aver denunciato, si è accorta del mondo che esisteva fuori di casa, e di quanto di quel mondo si era persa negli anni con lui, troppo intenta a colpevolizzarsi, a occuparsi dei problemi di lui, a cercare sempre di migliorare per lui, perché in qualunque caso non andava mai bene.

Dopo aver denunciato,  ha ripreso la sua rete di tante amiche, amici, alcuni dei quali e delle quali allontanatesi proprio per l’”impresentabilità sociale” di lui, che solo lei non vedeva.

Ora sì. Ora la vede. L’occhio è guarito, e il cervello anche. Ora vede tutto. E vedono tutto le Forze dell’Ordine e, ne è certa, anche i Magistrati.

Ci sono uomini pericolosi che camminano su due gambe come tutti gli altri. Che ridono, scherzano, lavorano, come tutti gli altri. E che magari hanno anche fan (donne, vittime cicliche) a sostenerli.

E poi ci sono ragazze che soffrono, che vivono nella vergogna soprattutto se non è la prima esperienza violenta che esperiscono. Ma queste ragazze hanno voglia e bisogno di giustizia. Di sentirsi dire che no, loro non sono pazze. Loro sono state sfortunate. Sono incappate nelle grinfie di mostri travestiti da persone normali.

Queste ragazze hanno bisogno di poter camminare per strada tranquille.

E non intendo per le strade della città.

Ma per la strada della Vita.

Avv.ta Rosangela Cassano

Presidente Associazione “Artemisia Gentileschi”