Di Antonio Alizzi

Uno degli obiettivi che si era dato il procuratore Nicola Gratteri, nel giorno del suo insediamento, era quello di venire a capo di una serie di fascicoli che per troppo tempo erano rimasti nelle scrivanie di alcuni pm. E tra le inchieste “in sospeso” c’erano, e ci sono, quelle riguardanti la criminalità organizzata cosentina. Il primo segnale in questo senso arrivò il giorno degli arresti per l’omicidio di Franco Marincola, poi i presunti mandati ed esecutori materiali della strage di via Popilia e infine il tentato omicidio di Pino De Rose, commesso nel 2004 nel centro storico di Cosenza.

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Fascicoli in “stand-by” per quasi 14 anni, così come quelli sulle indagini su Castrolibero e Rende, due comuni nel mirino dell’Antimafia per presunti patti elettorali tra politici e cosche cosentine, che oggi vengono a galla anche grazie alle dichiarazioni degli ultimi collaboratori di giustizia. Non è un mistero, infatti, che la decisione di “saltare il fosso” di Adolfo Foggetti, Franco Bruzzese, Daniele Lamanna e, non per ultimo, di Luciano Impieri, abbia aperto uno squarcio molto profondo nei contesti mafiosi della città. Loro quattro, così come tanti altri di statura criminale inferiore, hanno contribuito ad arricchire le investigazioni delle forze dell’ordine, che ovviamente dovranno trovare conferma in un processo.

Il tentato omicidio di De Rose
Il primo che ne parla è Daniele Lamanna, quale partecipe del tentato omicidio. Lo fa nel 2016, poche settimane dopo il suo pentimento, davanti all’ex pm antimafia Pierpaolo Bruni, all’attuale procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, ai carabinieri del Comando Provinciale di Cosenza e agli uomini della Dia di Catanzaro.

E’ il 20 aprile 2016 quando Lamanna, accusatosi tra le altre cose di aver ucciso Luca Bruni, racconta ai magistrati antimafia che «qualche mese dopo dell’omicidio Marincola, quindi nell’autunno del 2004, Luca e Michele Bruni mi chiesero di uccidere Pinuzzo De Rose che era responsabile dell’omicidio di Francesco Bruni junior», eliminato nel 1991 a 16 anni nella Presila cosentina.

Il pentito Daniele Lamanna
Il pentito Daniele Lamanna
Secondo i “Bella bella”, «De Rose aveva attirato in un tranello Francesco Bruni junior che si fidava» di lui «in virtù di un rapporto di comparaggio esistente tra De Rose e la famiglia Bruni». I due fratelli menzionati da Lamanna «dissero che era arrivato il momento di fare pagare l’omicidio di Francesco Bruni junior a Pinuzzu De Rose».

Qui il pentito fa una serie di nomi, che avrebbero partecipato alle varie fasi dell’agguato. «Umile Miceli e Francesco Ripepi cominciarono a studiare le abitudini di De Rose. In un primo momento si decise di eseguire l’azione presso l’abitazione di De Rose situata nel centro storico nei pressi della piazza Piccola». Ed ecco ulteriori dettagli: «L’azione doveva essere eseguita, oltre che da me, da Fabrizio Poddighe. Quest’ultimo è un uomo di Franco Tundis. Michele Bruni mi rassicurava delle sue capacità».

Le armi utilizzate
Il pentito Lamanna spiega con quali armi avrebbero dovuto ammazzare il “traditore”. «Per quest’omicidio avevamo le seguenti armi: una pistola calibro 38 e un fucile a pompa che ci aveva messo a disposizione Umile Miceli che mi disse si era procurato da Massimino Greco, detto “Malavita”». Nell’elenco figura anche una 9×21.

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Il racconto del collaboratore di giustizia si sposta sulle fasi preparatorie. «Ricordo che facemmo anche un appostamento in una casa diroccata, messaci a disposizione da Francesco Ripepi. Desistemmo però dall’agire in quanto avremmo dovuto compiere a piedi un pezzo di strada con rischi facilmente immaginabili. Seguì una nuova fase di studio delle abitudini di Pino De Rose posta in essere sempre da Umile Miceli e Francesco Ripepi che si resero conto del fatto che, ogni sera, giocava a carte presso il circolo Faraca».

«Pertanto, rassicurato delle capacità di Poddighe, decisi che l’azione poteva essere eseguita in modo estremamente semplice: Poddighe poteva entrare con un semplice berrettino in testa, nella sala giochi, tanto a Cosenza non lo conosceva nessuno e così poteva sparare contro Pino De Rose» afferma il pentito Lamanna, ex esponente del clan “Bruni” di Cosenza.

Killer in azione
Lamanna, dunque, arriva al momento clou della vicenda. «Ci mettemmo in auto» che gli avrebbe procurato Miceli, tramite gli zingari, «programmando l’azione come segue: Ripepi avrebbe dovuto verificare quando De Rose sarebbe entrato nella sala giochi, avrebbe telefonato a Miceli, il quale, a sua volta, doveva chiamare me, in modo che inviassi Poddighe presso la sala giochi». L’omicidio fallirà, però.

Il killer del Tirreno cosentino, secondo quanto dichiara il pentito, sarebbe sceso dall’auto, incamminandosi verso il luogo in cui era De Rose, appena sentiti i primi spari, Lamanna si avvicinò a Poddighhe e vide diverse persone correre all’impazzata. «Passai il fucile a Poddighe, che iniziò a correre per inseguire De Rose. Udii un colpo di fucile, feci marcia indietro impegnando viale Trieste a salire sulla sinistra, in quanto sul lato destro della strada, c’era il rischio di essere inquadrati dalle telecamere di una banca». Poi «sopraggiunse Poddighe che era molto agitato. Vendendolo in quello stato non gli chiesi nulla».

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La Squadra Mobile di Cosenza ha condotte le indagini
Proseguì verso Carolei dove ad attenderlo c’era «il professore Pasqualino Besaldo» che «ci portò in un’abitazione di Amantea», mentre «Pierre Mannarino prese le due pistole. Il fucile era rimasto sul luogo dell’agguato». Qui il retroscena. «In quel momento non avevo ancora inteso che cosa era accaduto, pensavo che Pino De Rose fosse stato ammazzato e che Fabrizio avesse lasciato sul posto il fucile. Soltanto alle ore 22.30 dai sottotitoli che scorrono durante il tg2, ebbi notizia di un ferimento a Cosenza e quindi mi determinai a chiedere che fosse successo».

Poddighe, a dire del pentito, «era imbarazzantissimo, mi disse che aveva solo ferito di striscio al collo Pino De Rose, in quanto la pistola calibro 38 si era inceppata, dopodiché mi disse che era scivolato e gli era caduto il fucile». Secondo Lamanna, infine, «mi resi conto che Poddighe aveva i calzoni fra le due gambe, all’altezza dell’inguine, bruciati. Un colpo era passato in mezzo alle sue gambe e allora capii che Pino De Rose era riuscito a impossessarsi del fucile e a sparagli contro». La pistola, secondo il pentito, si inceppò perché «i proiettili erano di calibro più piccolo dell’arma, per cui non essendo perfettamente incastrati nel tamburo, avevano determinato l’inceppamento dell’arma».

Gli altri indagati
Nell’inchiesta, coordinata dal pm Camillo Falvo, risultano indagati anche Franco Tundis, il pentito Franco Bruzzese, Giovanni Abruzzese, Carlo Lamanna, Adolfo Foggetti e i fratelli Fabrizio e Luciano Carmelo Poddighe in qualità di mandanti del tentato omicidio, Umile Miceli e Francesco Ripepi che secondo le forze dell’ordine «svolsero il compito di segnalare a Lamanna e Poddighe la presenza della vittima nel circolo creativo, Massimo Greco fornitore delle due armi utilizzate nell’agguato, Pasqualino Besaldo che «ha provveduto a “recuperare” i due attentatori a Potame» e infine Pier Mannarino che «dopo il tentato omicidio, ha preso in consegna le armi». Le indagini sono condotte dalla Squadra Mobile di Cosenza, diretta dal vice questore Fabio Catalano.