Avevo otto anni quando la ’ndrangheta uccise mio padre. Da 25 cerco la verità». Parla per la prima volta la tenente Ivana Fava, figlia dell’appuntato Antonino Fava, assassinato insieme al collega Vincenzo Garofalo sulla Salerno – Reggio Calabria nel 1994. «Fu un vero agguato in stile mafioso. Mio padre e Garofalo furono prima massacrati a colpi di mitra e poi “graziati” con gli ultimi proiettili sparati a distanza ravvicinata. Uno dei killer era addirittura minorenne».

 

La procura della Repubblica di Reggio Calabria, dopo anni di depistaggi e grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Consolato Villani, ha scoperto che dopo le stragi di Capaci e di Via D’ Amelio, c’è stato un patto fra mafia e ’ndrangheta per colpire lo Stato. Come primo atto di quello scellerato accordo Cosa nostra nel maggio del 1993 ha fatto scoppiare le bombe in via dei Georgofili a Firenze, e due mesi dopo, nella stessa notte, quelle in via Palestro a Milano e in San Giorgio al Velabro a Roma.

L’attentato a Fava e a Garofalo si inserisce in questo contesto, e il processo per fare finalmente luce, “Ndrangheta stragista”, è in corso: alla sbarra il boss palermitano Giuseppe Graviano e quello calabrese Rocco Filippone, accusati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di essere i mandanti degli omicidi di Fava e Garofalo. Si prevedono colpi di scena. «Non mi perdo un’udienza pur facendo molti sacrifici. Sento che lo Stato vincerà, questa volta» ci racconta la tenente Fava. Due grandi occhi che non riescono a nascondere il dolore che si porta dentro, ma anche una grande felicità, quella di essere entrata a far parte dell’Arma, come papà. «Ho realizzato il sogno della mia infanzia. Quelle stellette erano tatuate nel cuore e sapevo che prima o poi le avrei cucite sulla divisa. Perché se in Calabria sei figlia di un carabiniere, sei sbirra anche tu, e se la ’ndrangheta ha ammazzato tuo padre, non hai altra scelta».

Ricorda le ultime parole di suo padre?
Ci vediamo domani, disse. Mi baciò sulla fronte e non lo rividi più.

Se lo ricorda ancora?
Lo ricordo alto, possente. Sembrava un gigante buono: amava scherzare come un bambino.

Che cosa accadde la notte del 18 gennaio 1994?
Nel cuore della notte il citofono squarciò il silenzio della casa. La mamma chiuse la porta della camera, dove dormivamo io e mio fratello. La mattina la zia ci svegliò, avevo il cuore in subbuglio e tanta paura. Poi cominciò il via vai dei colleghi di mio padre che non ci lasciarono mai soli.

Come si spiega a una bambina che papà non tornerà a casa?
Mia madre portava sempre un abito nero, soffocava le lacrime. Finché mi disse: «Papà non tornerà a casa. Ha fatto talmente bene il suo dovere: è un soldato del Signore». Capivo che non era una favola e che mio padre era volato lassù.

La certezza?
Quando il presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr) consegnò a mia madre la medaglia d’oro al valor militare. Arrestarono, subito dopo, i killer. I Tg mandarono in onda le immagini cruente dell’Alfa 75 crivellata di colpi e le foto di papà e di Vincenzo Garofalo. Da quel giorno, misi in soffitta le bambole e anche la spensieratezza.

Come si fa a non impazzire ?
Impari a convivere con il dolore, a donare il tuo cuore agli altri. Al liceo cominciai a studiare anche le carte del processo e mi resi conti che non era un agguato, ma un progetto criminale pianificato da menti raffinatissime.

Come la scelta del killer minorenne…
Consolato Villani, a stento 17 anni, aveva la sfrontatezza di un boss come quei ragazzi cresciuti nella periferia di Reggio Calabria, dove la vera scuola è la ’ndrangheta.

Il fatto che fosse minorenne non ha permesso a sua madre e alla moglie del carabiniere Garofalo di costituirsi parte civile.
Villani si pentì e raccontò come andarono realmente i fatti. Non fu lui a commettere gli omicidi perché era al volante, ma Giuseppe Calabrò che fece fuoco con la mitraglietta M12: la stessa arma che utilizzarono in altri agguati. Ci sono voluti 24 anni prima di ricostruire pezzo dopo pezzo l’eccidio.

Ha perdonato gli assassini di suo padre?
Non spetta a me, ma a Dio. Anche se abbiamo ricevuto lettere e dichiarazioni di perdono, abbiamo preferito tacere e pregare, anche per loro.

Come si vive dopo la morte di un padre in un agguato della ’ndrangheta ?
I primi tempi mi isolarono, anche a scuola. Una frase non potrò dimenticare: «Sei la figlia dello sbirro, sei sbirra anche tu». Un giorno trovai il mio banco scarabocchiato. Un compagno aveva inciso: sei una sbirra. Lo affrontai: «Almeno avevo un padre, invece il tuo non lo vedi perché è in carcere». Mi rispose: «Morirai ammazzata come lui». Senza pensarci due volte, lo presi a calci e a pugni. Se non fosse intervenuta la professoressa, non me la sarei cavata con qualche livido.

Che fine ha fatto il suo compagno?
Ha seguito le orme paterne, si trova in carcere. Il destino era già segnato.

Anche il suo, tenente Fava.
Avevo rinunciato al sogno della divisa, mi sembrava come se volessi rincorrere la figura di mio padre. Prima mi sono laureata, poi mi sono sposata, ma mi sentivo incompleta…Quando sono stata ammessa alla riserva selezionata dell’Arma dei Carabinieri, ho capito che questa era la mia strada,

Non crede che la scelta di rimanere in Calabria potrebbe averla penalizzata ?
Non potrei vivere lontana dalla mia terra. Vorrei continuare a fare quello che mi hanno insegnato anche i colleghi di papà: combattere la criminalità organizzata. Altrimenti non ci sarà futuro per le nuove generazioni, né qui né altrove.

Segue il processo ’Ndrangheta stragista?
Non mi perdo un’udienza. Finalmente i miei dubbi trovano una risposta: tanti vicoli ciechi, o meglio un puzzle smontato che comincia a prendere una forma. Perché dopo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza abbiamo capito che dietro l’omicidio di mio padre e del suo collega c’è il gotha di Cosa Nostra e della ’ndrangheta che avevano deciso di fare la guerra allo Stato.

In questi anni ha trovato molte porte chiuse.
Ho girato molti studi legali. Sempre la stessa moviola: presentavo le carte del processo e si defilavano. La raccomandazione era: Ivana, lascia perdere, pensa alla tua vita. Tanto tuo padre non tornerà.

Cosa faceva ?
La ricerca della verità è una strada in salita: ingoiavo lacrime, ma non mollavo. Finché ho scritto una email all’avvocato Antonio Ingroia, ex magistrato della procura di Palermo, che mi ha risposto immediatamente: accetto.

Dica la verità: cosa ha provato davanti al killer di suo padre ?
Una strana sensazione. Sei a pochi passi dall’uomo che ti ha strappato la persona più preziosa della tua vita e devi dominare la tua istintività.

Avrebbe voluto reagire come quella volta che prese a calci e a pugni il suo compagno di scuola ?
Il pensiero era proprio quello…

A sua figlia, nove anni, parla del nonno?
Mi chiede sempre: «Perché la nonna è sola?». Allora le racconto del nonno, quando mi portava al maneggio, e nei boschi facevamo lunghe passeggiate .

C’è mai tornata in quel maneggio, insieme a sua figlia ?
Certi ricordi devono rimanere tali, per sempre.

iodonna