Il malessere causato dalla malattia lo aveva palesato più e più volte. Dal carcere dove da diversi anni scontava il regime del carcere duro, Franco Muto, ai giudici del processo “Frontiera” ha sempre riferito che le condizioni in cui la malattia aveva ridotto il suo fisico non potevano conciliarsi con le regole stringenti del 41bis. A convincere il tribunale delle libertà a scarcerare Franco Muto, su richiesta dei suoi avvocati, sono state proprio le evidenze processuali e storiche emerse nel corso del processo “Frontiera”. L’operazione condotta dalla Dda di Catanzaro non solo decimò gli affari del clan egemone sul Tirreno, ma ridisegnò lo schema di potere. Non sarebbe più “Il Re del Pesce” a controllare gli affari della cosca ma suo figlio Luigi, arrestato dalle forze dell’ordine nel blitz del 2016 e condannato nello stesso procedimento del padre, dopo aver optato per il rito abbreviato. Sono anni che Franco Muto tenta un ritorno a Cetraro. L’istanza di scarcerazione è stata avanzata in diverse occasioni dai suoi avvocati sia dinnanzi al tribunale delle libertà che davanti agli ermellini della Corte di Cassazione. L’ultimo no, Muto, lo aveva ricevuto dal giudice Alfredo Cosenza presidente del collegio giudicante che nel palazzo di giustizia di Paola ha istruito il processo “Frontiera”. Nonostante il vecchio boss cetrarese lamentasse diversi malesseri, negli ultimi periodi legati alle difficoltà di deambulazione, per i medici nominati dai diversi giudici il quadro clinico non risultò mai incompatibile con le regole del carcere duro. Poi c’era un altro aspetto: il timore che Franco Muto, tornato a casa avrebbe potuto riprendere le redini della cosca. Adesso lo scenario è cambiato, i giudici del Tdl hanno disposto il rientro a casa. L’ultimo desiderio è stato esaudito: «lasciatemi morire a casa». (mi.pr.)