Di Antonello Troya

Affetto da sindrome di down, non era stato capace di difendersi e nemmeno riusciva ad esprimere quali violenze stesse subendo. La storia viene fuori circa due anni fa quando un compagnetto di classe, guardando le immagini in tv durante un telegiornale, scoppia a piangere. I genitori preoccupati si chiedono cosa mai fosse accaduto. Il bambino tra le lacrime racconta di agghiaccianti scene commesse ai danni del suo amico disabile, preso di mira dalla insegnante di sostegno, strattonato a maltrattato e apostrofato come “mongoloide”.

Da lì prendono il via una serie di indagini a carico di una donna di Fuscaldo. Il padre del disabile, l’avvocato Francesco Liserre, chiede e ottiene un processo a carico della donna. Ora dopo due anni il gip ha disposto, ieri mattina, l’archiviazione per la donna. Infondata la notizia di reato. Insomma, anche se l’incidente probatorio aveva chiarito il ruolo della imputata, dopo due anni la fine della storia ne sancisce l’archiviazione.

Ma è ancora presto per mettere la parola fine. L’avvocato Liserre ha manifestato l’intenzione di portare il caso dinanzi ai giudici di Salerno, competenti per giurisdizione e dinanzi al Consiglio superiore della magistratura. “E’ un affronto – ha detto l’avvocato Liserre – alla dignità di un bambino disabile. Su questa vicenda comincerò a preparare un dossier che porterò al Ministero della giustizia per sollecitare una ispezione. Dinanzi ad un bambino disabile non c’è storia”.

Riportiamo per intero la lettera dell’avvocato Francesco Liserre, papà del bambino

l’avv. Liserre denuncia al csm, al Ministero della Giustizia e alla corte europea dei diritti dell’uomo, un Pm e un Gip del tribunale di Paola

Parafrasando l’eccelso Maestro, Alfredo De Marsico, mi verrebbe da dire: ieri, sul tavolo del Gip di Paola, è tramontato il sole! Una giustizia, talvolta, affetta da miope garantismo nei confronti di taluno e da eccessivo zelo colpevolista nei confronti di altri. Ho l’incommensurabile privilegio di essere padre di un dolcissimo e meraviglioso bambino con sindrome di Down. Purtroppo, nei primi mesi dell’anno 2017, mio figlio, allora frequentante il secondo anno della scuola primaria dell’Istituto Comprensivo di Diamante, è stato vittima di brutali ed inenarrabili maltrattamenti, da parte dell’insegnante di sostegno, perpetrati soprattutto nell’esecrabile connivenza di un compiacente e mafioso silenzio da parte di chi, pur avendovi timidamente assistito, nulla ha fatto per impedire simili nefandezze. Solo il provvidenziale e drammatico racconto dei numerosi compagnetti di classe di mio figlio, permetteva di squarciare l’inquietante velo omertoso su tali abomini. In particolare, i bambini raccontavano, ai rispettivi genitori, tutte le violenze, fisiche e psicologiche, subite da mio figlio nel più assordante e indifferente silenzio. Tuttavia, l’allora rappresentante della pubblica accusa, non riteneva di dover richiedere una misura cautelare, quantomeno interdittiva e un doveroso incidente probatorio al fine di anticipare e cristallizzare, nell’ineludibile centralità della dialettica processuale, gli allarmanti elementi indiziari, scongiurando la prevedibile e fisiologica dispersione del ricordo, connesso alla particolare fase evolutiva dei minori dichiaranti. Solo dopo circa due anni, veniva disposto un incidente probatorio a seguito del quale, lo stesso rappresentante della pubblica accusa, presentava, al GIP, una richiesta d’archiviazione i cui contenuti, formali e sostanziali, a tratti evocativi di arcaiche e ormai aborrite concezioni educative patriarcali, sono irrefutabilmente sintomatici di una travisata e approssimativa ricostruzione della vicenda nella sua duplice connotazione, giuridica e fattuale, che annichiliscono e offendono la dignità della persona, probabilmente più del fatto incriminato. La richiesta di archiviazione, giunta, tra l’altro, con inusitata solerzia, escludeva la sussistenza di condotte penalmente rilevanti ascrivibili all’indagata, in quanto “da una approssimativa valutazione….appare del tutto normale imprimere un po’ di forza per sollevare un bambino da terra  senza che cio’ implichi necessariamente una violenza fisica…..puo’ dunque asserirsi che la maestra….sgridava…..ogni qualvolta lo stesso si buttava per terra facendo i capricci al fine di stimolare la sua collaborazione”. Orbene, si apprende, con sommo stupore, secondo quella “approssimativa valutazione” richiamata dallo stesso Magistrato, una nuova metodologia pedagogica,  probabilmente ignota alla stessa Montessori, allorquando si teorizza  il ricorso alla vis fisica quale atto propedeutico allo stimolo collaborativo! Per dirla con il grande Penalista napoletano, Enrico De Nicola, verrebbe spontaneo affermare che “la vera eloquenza consiste non solo nel dire bene ciò che è necessario, ma nel tacere ciò che non occorre dire”. Inoltre, alla luce delle dichiarazioni testimoniali, sinteticamente richiamate dall’Inquirente, l’assenza di “un uso sistematico della violenza, per come richiederebbe la fattispecie…. osta a ritenere pienamente configurabile, sia il reato di maltrattamenti per cui si procede, sia i diversi reati di lesioni, percosse e abuso di mezzi di correzione o disciplina”.  Ne deriva, pertanto, quale logico corollario che “sgridare violentemente, urlare, gridare fortemente, strattonare con forza, trascinare a terra, tirare le orecchie, sbattere allo spigolo, minacciare di picchiare e spaventare un bambino, per giunta disabile” (testuale terminologia utilizzata dai bambini ed evocata anche nella rappresentazione gestuale, nel corso dell’incidente probatorio), rappresenti, a tacer d’altro, quella fisiologica estrinsecazione del rapporto educativo, improvvidamente ipotizzata dal Pm e totalmente condivisa dal GIP in un tempestivo e sciatto provvedimento di archiviazione, pronunciato in udienza quasi contestualmente all’esito della discussione difensiva. Tanto premesso, ritengo che questo vergognoso e abietto epilogo giudiziario, tra l’altro a danno di un bambino disabile, vada, con determinata veemenza e indipendentemente dal mio inevitabile coinvolgimento emotivo, stigmatizzato in ogni sede, giudiziaria e mediatica, anche sovranazionale. Secondo gli insegnamenti di mio padre, ho sempre cercato di interpretare, l’esaltante e nobile missione di avvocato, da sempre baluardo di libertà e legalità, soprattutto nel senso etimologico dell’advocatus, cioè di colui che è chiamato ad indossare la Toga in aiuto dei deboli, affermando la centralità dell’uomo, soprattutto nel rispetto della sua dignità, talvolta vilipesa e mortificata anche dal delirio di onnipotenza di certi magistrati. Tuttavia, sono sempre più convinto che, fino a quando un Giudice e un Pm cammineranno a braccetto e certa avvocatura non si riapproprierà, con orgoglio e fierezza, di quella dignità, sociale e istituzionale, a cui da tempo ha abdicato, non ci potrà mai essere libertà. Mi assumo ogni responsabilità delle mie dichiarazioni, consapevole di ritrovarmi, come sempre, solo. Solo con il peso del mio dovere e il dovere della mia fede!