Giacomo e Gino De Marco ottengono un risultato positivo davanti al tribunale del Riesame di Cosenza, ai quali si erano rivolti per chiedere l’annullamento del sequestro preventivo per equivalente disposto dal gip di Paola. In quella occasione, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Paola aveva arrestato il sindaco di Maierà e suo figlio per i reati di bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio. L’inchiesta è coordinata dalla procura guidata dal procuratore capo Pierpaolo Bruni e dalla Guardia di Finanza di Scalea.

Nel merito della decisione

Ancor prima del Riesame di Cosenza, già il tribunale della Libertà di Catanzaro aveva escluso il capo d’accusa riguardante il reato di autoriciclaggio, disponendo per Giacomo e Gino De Marco la misura cautelare degli arresti domiciliari. Ora anche i giudici di Cosenza (presidente del collegio, Paola Lucente; giudici a latere Francesco Luigi Branda e Urania Granata) hanno ritenuto infondate le accuse, annullando il sequestro dei beni.

Nel capo d’imputazione si fa riferimento che i due De Marco «in concorso tra loro, rispettivamente Gino De Marco, amministratore dal 3 luglio 2007 ad oggi della società Immobiliare Costruzioni De Marco srl, e Giacomo De Marco, amministratore di fato della società Immobiliare Costruzioni De Marco srl» entrambi già Maierà Costruzioni srl «impiegavano e trasferivano a seguito della stipula del simulato contratto di affitto di ramo d’azienda del 1 giugno 2011, con scadenza 1 giugno 2019, in attività imprenditoriali, ovvero nelle attività di esecuzione di appalti pubblici svolta dalla società Immobiliare Costruzioni De Marco Srl, tutti i beni e le attività riconducibili al ramo d’azienda della società fallita ceduto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa».

Gli avvocati Benedetto Carratelli e Nicola Carratelli, difensori degli indagati Giacomo e Gino De Marco, ritenevano l’assenza del fumus commissi delicti in relazione a tutti i reati, e specificatamente, riguardo al delitto di autoriciclaggio, osservando che non risultava ascritta ed accertata alcuna condotta decettiva necessaria ad integrare la fattispecie di reato. 

Il Tribunale del Riesame di Cosenza ha ritenuto fondato il ricorso degli avvocati del foro di Cosenza, evidenziando come non vi sia la prova del quid pluris che «ostacoli la conoscibilità della provenienza illecita». E ancora: «Questa prova non può essere integrata dal mero trasferimento nel patrimonio di un altro soggetto giuridico, specialmente se i beni conservino la loro identità, ancorché utilizzati nell’esercizio dell’attività».

I giudici scrivono che «non si può condividere l’affermazione che il solo affitto di azienda proveniente dal fallimento, ancorché integrativo del reato di bancarotta, possa di per sé determinare la dissimulazione dell’origine delittuosa, sol perché – come ha sostenuto il primo giudice – vi sarebbe stata una imprecisata confusione dei patrimoni». 

«L’azienda, infatti, è costituita da beni di cui generalmente permane inalterata la tracciabilità e, nel caso di specie, non risulta contestato che sia stato adottato alcun accorgimento per nasconderne la provenienza».

Per questo motivo, il riesame di Cosenza spiega che «non è stato fornito adeguato supporto, anche a livello di astratta configurabilità del reato, per ritenere che gli indagati abbiano posto in essere attività concretamente idonee a dissimulare l’origine delittuosa dei beni costituenti ramo aziendale, provenienti dal fallimento e impiegati per ottenere l’aggiudicazione di appalti». (alan)